Capo Horn
Il sogno di un uomo, l’incubo di una donna
Mursia, 1998
Bensì viene rullando sul mare
Il masso che ci aleggiava accanto,
e nella scia da lui tracciata
il vivido sogno pone le sue uova.
Celan – Insieme
Rèanne e Don partiranno per un viaggio supposto ma non conosciuto. Penseranno di essersi preparati, ma il sogno mappato vive solo della speranza del già visto. Quello di uomo e di una donna che decidono di seguirsi nelle feritoie dell’esistenza, potrà costituirsi preparato, protetto al meraviglioso e alle sue soglie che sorprendendo abbagliano, come quelle porte dei sogni che non abbiamo il coraggio di oltrepassare?
Il progetto della traversata di Capo Horn in barca a vela, si trasformerà presto in un serrato confronto tra maschile e femminile, marito e moglie, padre e madre, insomma un viaggio lungo l’ombroso limite delle differenze. Domande improrogabili sul come e su cosa fonda un’unione matrimoniale, quel “…sottoscrissi qualsiasi tipo di vita fosse seguita” (p. 17), costellano il libro trapuntato di pagine del suo stesso diario, puntale a trascrivere sogni, ricordi, riflessioni dell’incalzato dialogo di una moglie che ha seguito il marito-capitano della Le Dauphin Amical. Ma il luogo non sarà una calda passeggiata di fine estate nelle colline toscane del Chianti, bensì le curvature dell’orizzonte oceanico dell’emisfero australe.
Da Los Angeles sino alla lontana Ushuaia, passando per l’Isola di Pasqua e i Quaranta Ruggenti, attraverseranno meridiani e correnti ostinate, taglienti tempeste e immensi vuoti pieni di lucenti azzurre bonacce, incontrando denudati sé e i loro danzanti fantasmi, e forse qualcos’altro.
Come in ogni grande impresa, si parte indebitati (per il denaro, con il destino, verso l’amore, le colpe commesse, chissà…) e affannati, a rincorrere sicurezze o successo, che non avranno, sostegno che non incontreranno, illusioni che muteranno segno, se non calibrando una rotta appena definita dalle sue stesse continue variazioni. Il sestante, le carte nautiche e le stelle saranno un serpeggiare continuo dal cuore ad indirizzare la rotta, gli scenari possibili, le rinunce in un cielo capovolto.
Genitori divorziati e a metà della loro vita, Don e Rèanne comprenderanno molto presto la necessità di rifondare una loro intimità al di là dei figli, che perderanno presto dal loro sogno, catturati e rapiti, loro, dai propri ad inseguire altri ardenti orizzonti. Capiranno la necessità della separazione dalle proprie famiglie d’origine, immersi nell’intrecciare ricordi, questioni sospese, discorsi interrotti attraverso estenuanti conti che non tornano, mai. Accettare e superare (se non sopravvivere) alla crescita dei figli comporta dolore e la promessa di un rinnovato riprovarci. Le richieste di una vita incomprensibile saranno le Moire pronte a tessere una trama tutta da inventare, perché il vasto oceano del sentimento non lascia traccia per nessuno.
I cliché della coppia si sfalderanno sotto la pressione delle incombenze quotidiane. Portare una barca a vela staglierà sullo sfondo la metafora del loro rapporto, comporterà audacia e desiderio: il lettore verrà trascinato lontano, al largo per perdersi con loro nel “nevischio, misto a sale, mi faceva bruciare gli occhi ed era riuscito a farsi strada attraversi la sciarpa, giù per il collo. Rabbrividii e guardai verso poppa. Il mare era un campo di battaglia bianco. I marosi venivano avanti come carri armati; getti d’acqua simili a geyser si innalzavano ed esplodevano. La spuma bianca si increspava e precipitava per un centinaio di metri prima di sprofondare in cavità senza fine. Sopra di noi si agitavano nubi scure, che verso ovest raggiungevano un orizzonte che avvampava di giallo con l’intensità di una foresta in fiamme” (p.146).
Il giornale di bordo del capitano e il diario di Rèanne, saranno cari compagni di viaggio e caldi confidenti pronti a consolare, a dire “…avanti, non è finita! Avanti siamo vivi!”.
La cura della barca, il suo disordine senz’angoli, l’umidità ubiqua, la puzza degli odori corporali e i vestiti appiccicosi, insomma quel reale al quale quotidianamente ci si affaccenda per non soccombervisi “Ma io nemmeno mi sognavo che potesse essere così terribile” (p. 49), comprenderà presto Rèanne nella sua esperienza. Alternando vedute meravigliose alla sempre difficile sessualità che oramai invecchiando non trascina più sé stessa, ma cerca modi di esprimersi tra il mal di mare, le infezioni urinarie e i malesseri torvi del corpo, Don imparerà a tradursi in carezze, attenzioni, sciogliendosi in fremiti e sussurri, nel ritmo esotico della sua compagna. Continuo il confronto tra ciò che il discorso maschile comprende del femminile e viceversa; i due protagonisti cercheranno e saranno in grado di fare proprio qualcosa del discorso dell’altro? Vederne l’inestimabile attraverso il fragile e il ripugnante?
È un libro impetuoso, che spinge lungo le disorientanti frontiere dell’intimità, zone minacciose battute da muraglie di venti sconosciuti densi di piombo e nuvole sfumate di intenso splendore, come accade in quei matrimoni dove si scopre di non essere mai stati soli; l’altro che ci è stato accanto, ha portato con sé consumate impronte di secoli, e le nostre prostrate pantofole.
I due marinai saranno pieni delle loro reciproche parole “…pesanti come la mano e scintillanti come le stelle” direbbe Hikmet (1948); sfumature di memorie per favorire quel transito di ruoli che permetterà di fare proprio il punto di vista dell’altro, se non un’effettiva cognizione di ciò che nel partner abbiamo amato perché si rivelasse a noi come la nostra scoperta: Rèanne vedrà finalmente che il sogno di Don era il proprio? Don comprenderà che sua moglie è la vita che aveva cercato?
In un intercalare continuo di sogni, ricordi sferzanti, battute maligne e vele da ammainare, si narra di due naviganti in grado di trascinare nella loro nudità, al cuore della loro barca, nelle profondità cobalto dei mari del Sud.
La Cura della Le Dauphin Amical, del lungo viaggio, sancirà il continuo movimento lungo il nastro di Möbius del loro avvicendarsi, del dolore riannodato alla gioia del ritrovarsi dispersi nelle loro pur sempre solitudini, del tempo che si sono rubati e dell’arco di senso che nella tensione dell’arditezza sono riusciti a restituirsi.
A cura di Leopoldo Francato
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